Nicola Contegreco
Presenza e finitudine nella poesia di Yves Bonnefoy

Pur avendo origini lontane – la fine degli anni Quaranta e gli inizi del decennio successivo -, il discorso poetico e teoretico di Yves Bonnefoy è comunque proseguito grosso modo sulla stessa linea di ricerca e verso un orizzonte prospettico omogeneo. Quella del grande poeta francese nato a Tours nel 1923 è dunque una poesia che mostra indubbiamente un taglio filosofico evidente, non perché si ponga come sistema articolato di procedure di astrazione1 – che, anzi, esecra profondamente – ma in quanto dedita attivamente alla rifondazione di un’ontologia, dopo che nel mondo della conoscenza era sopravvenuta una netta divisione tra la parola poetica e quella scientifica, rea, quest’ultima, di aver cercato di descrivere analiticamente la realtà fisica, e non solo quella. Ci troviamo, perciò, di fronte alla ricerca di un’unità da ricostruire, vera e non fittizia,2 un’unità tra le cose e il mondo, chiave necessaria e imprescindibile di questo sforzo proprio da parte del linguaggio della poesia.

Un’offerta di unità, in un’anima e un corpo, per un’opera di riunificazione ardua ma urgente. Poeta è chi dona se stesso accentrando su di sé le sparse scorie della caducità, schegge e frammenti di silice, brandelli di sogno e di illusioni, e, in un atto di accettazione responsabile e unanime del vivere, tramite la povertà della parola, si offre, d’autorità, a purificarli nella sua persona. Allora, le cose, redente e placate, lasciano da sé promanare tutta la bellezza del loro soffio mortale».3

Importante critico d’arte ed esperto di Rinascimento italiano, Bonnefoy studia la poetica delle diverse espressioni artistiche, andando oltre il solo linguaggio letterario e individuando in ogni opera il suo fulcro significante ovvero quella capacità di farsi presenza, parola chiave nella costituzione prismatica del suo itinerario poetico, di spingersi verso l’essere con la forza del desiderio, ma anche dell’amore e della speranza, nell’accettazione della finitudine come stigma-stemma dell’esistenza umana e operando, per questo, dentro un conflitto ininterrotto con il linguaggio concettuale, che tenta di separarci dal senso originario del mondo, dalla sua pienezza e da quell’unità che una volta ci legava al tutto.

Gli anni a seguire saranno invece caratterizzati da una profonda analisi gnoseologica supportata da un lavoro di scavo dentro una notevole densità semantica dell’enunciato: ciò verrà messo in atto attraverso strutture grammaticali elementari e paratattiche,4 improntate ad una essenzialità capace di dire nuovamente le cose nel tentativo di superare la distanza tra parola e oggetto. A volte, infatti, analizzando la stesura dei suoi componimenti poetici, sembra che il poeta abbia operato per sottrazione, scarnificando il linguaggio per andare fino alla radice del verso pur mantenendo, al di là della limpidezza dello strato superficiale dei significanti, il conflitto lacerante tra gli strati del senso e dei significati ben evidenziati dal ricorso a contrapposizioni e ossimori. Lo spazio del poema diventa quasi spazio sacro, cerchio di fuoco entro il quale si svolge il rituale ancestrale della nominazione, l’osservazione diretta degli archetipi che si liberano dalla paralisi della massa del linguaggio.5 Il poeta unicamente è in grado di agire in quello spazio e di rientrare in contatto con una materia primitiva.

Questa sorta di mitologia della materia sembra fondarsi sulla rappresentazione di alcuni termini-chiave che ritornano spesso e che il critico Jean-Pierre Richard6 così individua: «la pietra è segno di notte della materia e di morte; il vento è ciò che è opposto alla materia e lava dalle finzioni; il sangue rivela una lacerazione, l’ebbrezza dell’equilibrio spezzato; i vegetali dicono proliferazione incontrollata della vita, turbinosissimo caos; la spada è il brillio generato dalla materia nera e informe; il fuoco è negazione totale ma anche ardore che contrasta il freddo della materia, principio di attività»7.

E poi l’estate e, soprattutto, la luce, luoghi di una geografia interiore e tuttavia estremamente materiali, spazi morfologici intrisi di tempo e capaci di scardinare le serrature di una visione artefatta dell’intelligenza che deve disfarsi di una logica della pura chiarezza, poiché questa logica non vale se vogliamo far entrare il divino nelle cose: «[...] ora puoi nominare iddio questo vaso vuoto […] Nell’evaporarsi, ed è la sola/ Intelligenza, qui, che sappia e provi»8.

Si potrebbe ancora citare la Fenice, animale mitico dalla pregnante valenza simbolica per il morire, distruggersi e rinascere dai propri resti ormai arsi; la salamandra, soggetto molto frequente a partire dal Medioevo nei bestiari cristologici per la sua supposta capacità di rigenerarsi, di attraversare il fuoco per mezzo delle sue metamorfosi; e ancora, gli altri emblemi ricorrenti della sua mappa araldica - da Hier régnant désert, Pierre écrite fino a Ce qui fut sans lumière e oltre -: l’acqua, il fiume, la neve, i luoghi, spesso consolidantisi in quel famoso Arriére-Pays 9 che dà il titolo al volume omonimo del 1972, «più che un entroterra, un retroterra, quello che c’è dietro il paese ideale e che è destinato a rimanere “inaccessibile” o “improbabile”, insomma il cuore di una chimera o il sogno di un’unità»10. Il divenire diventa una forza implacabile che domina letteralmente il paesaggio, un ingranaggio complicato, elaboratissimo che dalle origini e in eterno ingloba in sé ogni animale, pianta, pietra, agente naturale, costringendoli ad essere partecipi di questo processo di creazione e disfacimento e rigenerazione nel presente.11

Ricordiamo che Bonnefoy è un poeta che si pone sulla scena un contesto epocale storicamente significativo, ossia mentre cala il sipario di un secolo e, ancora, di un millennio. Il suo stesso uso di figure ossimoriche, messe fortemente in evidenza, e la meccanica dei contrasti, diventano direzioni fondamentali nella sua poesia la cui dimensione è da subito quella della soglia, del limen, del punto di attraversamento e di confine. È in quel punto che avviene l’urto e, di conseguenza, il passaggio verso una condizione più umana della comprensione dell’ essere. Il termine di un’epoca presuppone l’inizio di un’altra proprio nell’attraversamento della soglia e consente la riapertura di un nuovo percorso. Sul finire del secolo – e del millennio - Bonnefoy lavora, non a caso, ad un’opera prima emblematica, Movimento e immobilità di Douve,12 sul grande tema del divenire, del trapasso, di ciò che diviene e si trasforma che è anche un tema shakespeariano (del grande autore inglese tradurrà le poesie e diverse opere, tra le quali l’amatissimo Racconto d’inverno), di ciò che brucia per rinascere, e di ciò che resta: l’archetipo.  La metamorfosi «non è soltanto momento arboreo, dafnico, della creatura , o “fuoco che affina”, o tenebra che li confonde e dunque effonde gli elementi creaturali. La metamorfosi è anche, e anzi soprattutto, impossibilità della reductio ad unum, al di là di tanta distruzione fenomenica; quell’uno tentato è in realtà un annientamento, corrisponde all’azzeramento del linguaggio».13

Ma per fare questo, non indifferente all’insegnamento di Alberto Giacometti (altro grande amore al quale dedicherà molti anni di studio e diversi scritti saggistici),14 lavora alla scarnificazione dei personaggi che si riducono fino a diventare voci. Si ricollega a più livelli ai dispositivi cosmologici – che ancora oggi la fisica continua a studiare e ad indagare - come i processi di distruzione e ricomposizione, il caos e l’ordine che regolano l’universo. Così anche gli elementi costanti della natura, le pietre e i fiumi, le piante e gli animali, si muovono e vivono diventando attori sulla scena – e l’idea di teatro è ben presente soprattutto nella produzione d’esordio dove un’intera sezione è intitolata, appunto, “Teatro” - di questa poesia dall’accento cosmico e presocratico, nella direzione di una lettura ontologica del mondo a partire dai tasselli elementari che lo costituiscono e, allo stesso tempo, tentando di ridurre nei limiti del possibile la misura di quella soglia «che esiste fra l’esperienza della pura esistenza concettuale nell’azione, e il livello superiore, della coscienza del valore assoluto dell’esistenza».15

Gran parte della produzione bonnefoysiana denuncia l’illusorietà del concetto e la sua forza incantatrice che si trasmette alla coscienza umana attraverso il processo di astrazione non solo della rappresentazione del reale, ma anche degli eventi, degli stati d’animo e di quanto viene vissuto nei sentimenti. Il concetto offre un luogo sicuro e incorruttibile in cui poter dimorare ma il suo è un bene malefico poiché, pur rendendo trasparente in modo progressivo quella maledetta opacità delle cose che non ci consente di conoscerle a fondo e, altresì, acquietando le disarmonie e il caos che l’esistere produce, fa deviare il focus dell’essere verso ciò che non è realmente e autenticamente vissuto e che, in quanto tale, necessita di attraversare gli stadi dell’esperienza e, quindi, della sofferenza e della morte. Il concetto infatti «tenta di fondare la verità senza la morte. Di fare insomma che la morte non sia più vera»16, mentre una semplice foglia d’edera ormai secca che posso stringere nel cavo della mia mano, impregnata dell’Erlebnis che l’ha disfatta e consumata dall’interno, si pone come presenza, diventa cioè essenza che appartiene alla verità che nessuna speculazione epistemologica potrà tentare di negare:

L’oggetto sensibile è presenza. Si distingue dal concettuale prima di tutto per un atto, la presenza. E per uno slittamento. È qui e adesso. E il suo luogo, poi che non è il luogo proprio, il suo tempo, poi che è solo un frammento del tempo, sono gli elementi di una forza strana, d’un dono offerto, la sua presenza.[…] Nella misura in cui è presente, l’oggetto non cessa mai di scomparire. Nella misura in cui scompare, impone e urla la propria presenza.17

Sono parole che ben sintetizzano il significato che il poeta francese attribuisce a quel potere di trascendenza insito nella presenza: la foglia d'edera consumata si è, in questo modo, appropriata di quella porzione di tempo e di spazio che l'ha segnata e distrutta. Questo profondo evento di esperienza vissuta18 diventa così un brandello di eternità donata giacché niente potrà mutarla, né il tempo che continuerà a scorrere, né chiunque vorrà ignorarla. Se invece entriamo nel dominio della logica e dell'ideale la foglia può anche rivivere, diventare oggetto di una ricomposizione fasulla perché non immersa nel sensibile, ma soltanto nel circuito spaziale di fuga mentale; mentre quell’edera fisicamente calpestata non potrà più essere sanata. Ecco perché l'oggetto sensibile riesce a gridare la sua presenza solamente accettando l'inevitabilità della sua sparizione: in questa espressione apparentemente oscura e contraddittoria, Bonnefoy racchiude tutta la bellezza della nozione di presenza. E infatti «se la conoscenza dell’essere si effettua entro l’esperienza della morte, essa non potrà manifestarsi che nei termini di una distruzione». 19

Da un certo punto di vista il poema continuo di Bonnefoy rappresenta «il punto più avanzato e il risultato più conseguente del pensiero “esistenziale”20 nell’apprensione conoscitiva attuata tramite la morte finisce per includerla nelle forme entro le quali essa stessa viene deferita: ossia nella poesia, nell’enunciato poetico».21 Nulla perciò potrà cancellare quell’istante di esperienza profondamente vissuta, di vita penetrata dall'Erlebnis. Il palpito della materia nel fulcro della propria finitudine. La presenza immette un frammento vivo di eternità all’interno del tempo quotidiano. Ciò che avvertiamo – se siamo capaci di intravederne la forza eversiva - in quell'istante, non appartiene all’universo artefatto che il pensiero è capace di produrre attraverso la collaudata sintassi della realtà di ogni giorno, ma all’energia dirompente del divenire che ha impresso il suo peso sulla cosa infarcendola di vita vissuta. Questa misteriosa sospensione del tempo rende possibile una più profonda coesione all’interno del troppo umano sforzo dello stare al mondo. Questi frammenti che feriscono la durata e si esternano al di fuori della continuità, sono attimi di tempo sacro – che grazie alla sua immobilità permette un’aderenza alla pienezza dell’essere22 - all’interno del tempo profano, come ha spiegato Mircea Eliade.23 Di fronte all’astrazione del concetto, quindi, si pone l’assoluta concretezza dell’istante; il primo è foriero di menzogna, il secondo di verità, quella verità che viene accertata dalla percezione della morte, dalla finitudine dell’essere, che segna l’istante e gli dà vita. «[…] L’esperienza contemplata si trasforma nell’esperienza vissuta, che è quella della morte e del destino, mentre la conoscenza intellettuale decade dal ruolo di dare atto alla realtà»:24

Declinando l’estate si screpolava di un piacere monotono,
disprezzavamo l’ebbrezza incompiuta del vivere

«Meglio l’edera, dicevi, l’aggrapparsi dell’edera alle pietre
della sua notte: presenza senza scampo,viso senza radici.

«Estremo vento felice che l’unghia solare dilania,
meglio sulla montagna questo villaggio per morire.

«Meglio questo vento … »25

Dovrai per vivere marcare la morte,/ La più pura presenza è un sangue versato»26  scrive emblematicamente Bonnefoy; e altrove, in maniera ancora più estrema, forse: «Ormai vissuto l’istante in cui le carni più vicine si trasmutano in conoscenza».27 La fine è vista come principio di conoscenza nella materia della scrittura, anche se può risultare molto pericoloso arrivare al traguardo di un cammino cominciato nel buio. La poesia di Bonnefoy è sempre pervasa da uno stupore profondo in cui si materializza la concretezza della domanda attraverso la forza di un impulso impetuoso verso l’andare avanti, pur ostacolato da fremiti di angoscia o di caduta dentro il magma del passato. La conoscenza diventa così una prova, un’ordalia per sperimentare l’esperienza e le resistenze che essa comporta:

Ciò che mi colpisce, rileggendo quelle pagine, è che quel testimone che minaccia è anche qualcuno che promette, o quantomeno lascia intendere che un lavoro di liberazione è comunque possibile, a condizione però che colui che ascolta l’obiurgazione accetti di comprenderla e si sottometta a un’ordalia, vale a dire a una prova di sé che sarà un vero e proprio azzardo. L’ordalia è il titolo che avevo dato al libro; esso lo aveva ancora in seconde bozze quando, all’ultimo momento, lo sostituii […]28

Attenzione, però. La morte in quanto spazio di conoscenza e apprendimento del vissuto non è in Bonnefoy il codice risolutivo di un sistema di pensiero attuabile e realizzabile meccanicamente, anche perché risulterebbe inefficiente e limitato per le stesse ragioni di una sua potenziale concettuabilità. Essa, invece, proprio in quanto zona di passaggio, varco dell’indefinito verso cui scorgere il possibile e la sua densa conoscenza,29 non occlude lo spazio di un sistema di ricerca conoscitiva ma ne ancisce la più ampia apertura, il lento e vibrante movimento dentro il tessuto di immagini che è poi la materia stessa del dire poetico, il luogo del suo farsi. E il concetto non si oppone soltanto alla morte poiché non è in grado di spiegarla. Esso, ci dice Bonnefoy, è costretto a distogliersi anche da ogni altra cosa abbia a che fare con l’universo sensibile: «Da quale cosa sensibile del resto, da quale pietra che sia nel mondo non è distolto il concetto? Non si separa soltanto dalla morte, ma da tutto quel che ha un volto, da tutto quel che ha carne, pulsazione, immanenza, ed è dunque, per la sua segreta avarizia, il più insidioso, è vero, di tutti i pericoli»30.

Nel momento in cui formuliamo linguisticamente il nostro pensiero subentra una specie di distanza che ci porta a ricostruire il mondo in un altrove più sicuro apparentemente, forse, ma che favorisce la sparizione di ciò che è nella parola che lo nomina. È un’abitudine cui l’uomo sembra essere condannato in eterno, sempre più disperso nella miriade di linguaggi e nell’esplosione centrifuga dei significati che popolano il suo moderno sapere sempre in avanzata e alla ricerca di una pace interiore ormai perduta. È a questo punto che bisogna mettere in discussione tale dispositivo nella speranza (altra parola molto cara a Bonnefoy) di ricreare le parole, di farle tornare all’origine attraverso la presenza della cosa nominata31 e andando oltre quella dissociazione che viene a generarsi quando la parola diventa concetto. La finitudine, in realtà, sembra essere messa in pericolo ogniqualvolta vi è un’incursione subdola del linguaggio. Esso, nelle sue formulazioni, invita all’accesso di un mondo che si accosta, come sostanza, più al sogno e all’oblio dell’esistenza che all’esistenza in quanto tale nella sua originalità e unicità. La poesia dovrebbe mettere in discussione questo meccanismo, cercando di smontare dall’interno quello stesso strumento che le permette di realizzarsi nel concreto, sradicandolo da quella capacità potente e trasformativa che allontana dalla relazione con il sensibile, con l’alterità. Già negli anni Settanta Jean Starobinski aveva sottolineato, inoltre, come quella di Bonnefoy non fosse affatto una poesia di natura egolalica e narcisistica pur utilizzando in maniera assidua il pronome di prima persona singolare, proprio perché dotata di una possente tenuta relazionale nei confronti dello spazio posto al di là della prospettiva soggettiva.32

L’oggetto della speculazione poetica e filosofica del poeta è proprio, infatti, la relazione con il mondo, una riflessione costante, piena, instancabile, che va ad innervarsi dentro la carne dell’esistenza e, proprio attraverso il linguaggio, cerca di scavare una via possibile, un varco percorribile per giungere all’essere delle cose.33

Ma il linguaggio riesce veramente ad esprimere la concretezza dell'immediato?34 Bonnefoy sa bene che la questione non è affatto risolvibile completamente dato che, se è vero che la parola può celebrare la presenza al di là della mistificazione e portarci all’incontro con essa, è anche vero che non la può riprodurre o riedificare. La parola poetica perciò, è soltanto in grado di approcciarci alla presenza, di condurci ad una sperata prossimità senza tuttavia essere in grado di raggiungerla e possederla.

A questo punto la poesia si realizza proprio nell’atto di questa incompletezza, di questa incapacità o impossibilità di afferrare la presenza, rendendo il lavoro del poeta un’eterna ricerca, un tentativo mai esasperato di colmare questa mancanza, l’intento vivido e prepotente di ostacolare con forza l’operato del concetto, ossia quella forma di conoscenza che ricopre le cose con una verità apparente obnubilando il divenire autentico dell’essere umano. È proprio la poesia che possiede la capacità di risanare la ferita creatasi tra la scrittura e l’esistenza, tra le immagini e il corpo. Diciamo che la poesia è, per me, rendere alle cose la loro natura di esserci, la loro presenza piena, trasgredendo quindi, il concettuale che invece li confina nella generalità dei concetti e quindi nelle astrazioni. Per me la poesia è ridare vita agli aspetti della vita quotidiana. La poesia nasce come ci si sveglia al mattino. Il poeta non fa altro che continuare il sogno notturno. Il poeta verifica le informazioni che gli arrivano dall’inconscio che è una parte importante del nostro essere. Quindi, come vede, il lavoro del poeta è abbastanza passivo.35

La condizione della poesia è la precarietà, poiché nel suo essere non c’è il donarsi a una lingua irrigidita o l’offrirsi a lande anonime e immobili. Essa si spoglia di ogni certezza del discorso e ricomincia a interrogare la realtà del mondo attraverso la parola, diventando in questo modo viatico e direzione per la speranza, che purtroppo rimane quella di affidarsi all’affermazione dell’improbabile e all’attesa di ciò che è.

Un altro topos fondamentale, quindi, in questa poesia così legata alla speranza diventa quello dell’attesa. Ma siamo agli antipodi del vano attendere dei beckettiani Vladimiro ed Estragone, così intriso di humor folle e delirante, così caratterizzato nella sua stessa sostanza dalla inutile ricerca di una soluzione e da una vana ribellione contro l’assurdo dell’esistenza. Qui l’attesa è uno sforzo profondamente proficuo, pregno di necessità umana, poiché mostra, anche in questo caso, un moto di rivolta - contro il predominio assoluto e contro la sterilità del discorso concettuale -, ma nel senso di un’aspirazione all’incontro. La presenza, infatti, irrompe sempre in un tempo insperato, non calcolato né previsto, un tempo che diventa realizzazione concreta della finitudine, tempo fecondo ed esatto nel suo essere compiuto dentro l’esperienza. E a questa attesa, è utile ricordare, ci si prepara. Una volta nominata, la cosa si ricongiunge al suo primitivo sfavillio, ed è per questo che il dire poetico suggerisce l’essere. E ciò si compie, secondo Bonnefoy, nel cercare di giungere ad una lingua elementare, ad una voce che provenga dall’anima del mondo. La cosa detta attraverso la parola diventa veicolo per il quale si viene ospitati dentro un’area vivificata dalla speranza, dove vi è una rara capacità di illuminazione. Diventa necessario un ridimensionamento della soggetti vità in virtù di un’apertura verso il reale e verso l’accettazione del mondo, come un’ananke che descrive la sua parabola eliminando alternative fallaci, demolendo costruzioni di mondi iniettati dalla potenza del desiderio, dalla sua forza rovinosa e dilagante in ogni azione umana. Il soggetto, guarito dal personale istinto al narcisismo che gli consente di affermarsi in mezzo agli altri - aumentando però costantemente la distanza da loro - deve rinascere ed adeguarsi ad una nuova postura esistenziale: quella di una consapevolezza dei propri limiti, di un riconoscimento del contributo degli altri al proprio sviluppo spirituale, quella di un assunzione di una funzione attiva, costruttiva e responsabile che superi nettamente l’adorazione del sé e si ponga verso la terra, in continua relazione con essa. La terra come elemento primordiale nei suoi frutti diventa creta nelle mani dell’uomo che la plasma e crea e una

vegetale, ramificazione di luce e ombra, humus linfatico dell’essere. E nonostante sia un poeta del Novecento, epoca di avanguardie e sperimentalismi, crisi e ansie, Yves Bonnefoy affida la sua ricerca poetica ad una prospettiva conoscitiva profonda, interrogante e non consolatoria. Egli vede la vita del mondo appartenente alla vita di ogni essere umano come quella della ghianda è incorporata nella fibra della quercia. «Bonnefoy non indaga il mondo psicologico e sentimentale dell’uomo, ma le forze che gli corrispondono nella natura naturata e naturans, nelle energie primordiali, nelle fibre e nel volto del mondo».

Il semplice è, in fondo, nella penetrabilità del quotidiano, è là che bisogna accogliere il mistero nella sua vicinanza; questa possibilità richiede un sacrificio, quel gesto che mostra tutta la sua forza nell’urtare e infrangere la barriera estenuante dei segni allo scopo di veridilatazione dell’interiorità e rinnovare l’atto di fede assoluta nella finit udine dell’interiorità e rinnovare l’atto di fede assoluta nella finitudine del reale e nella sua greve caducità.

Questa unità tra le cose e il mondo va ricostruita attraverso la lingua che non è quella dell’agire comunicativo della quotidianità, ma una lingua semplice e umile a ci si ritorna per mezzo della poesia. Ecco cosa scrive Bonnefoy a proposito della scoperta della lingua latina durante la sua giovinezza: «Di colpo la pagina penetrò in me, e quando il giorno dopo, per primo, o unico, fui interrogato, esposi quella rivelazione in una sorta di estasi, peraltro poi rientrata … Che cosa avevo imparato? Che per dire c’era ubi. Ma che questa parola si riferisce soltanto al luogo in cui si è.

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Roberto Mussapi, postfazione a Yves Bonnefoy, L’uva di Zeusi, Jaca Book, Milano, 1997, pag. 77. (Les raisins de Zeuxis, Mercure de France, Paris, 1993). Scrive, inoltre, Isabella Molinaro:«Se è necessario materializzare il mondo, corporizzarlo, abbassandolo per offenderlo con l’umanità in un’unità e ‘matericità’ indissolubili, onnicomprensive secondo la lettura bachtiniana della cultura comica popolare medievale e rinascimentale è invece auspicabile, dalla prospettiva bonnefoysiana, corporizzare il mondo, incarnando sogni, desideri e slanci metafisici – gli infiniti aspetti delonnicomprensive secondo la lettura bachtiniana della cultura comica popolare medievale e rinascimentale è invece auspicabile, dalla prospettiva bonnefoysiana, corporizzare il mondo, incarnando sogni, desideri e slanci metafisici – gli infiniti aspetti delle cose, avvicinando cioè l’individuo, e l’umanità, al mondo stesso affinché possano reciprocamente e amorevolmente comprendersi», Isabella Molinaro, Corpi femminili…, cit., p. 16.

1 È importante riportare, a proposito del rapporto tra poesia e filosofia, quanto scritto dalla filosofa spagnola Maria Zambrano che vi ha dedicato un intero volume: «La poesia è stata in tutti i tempi, vivere secondo la carne. Ha costituito il peccato della carne fatta parola, eternato nell’espressione, oggettivato. Il filosofo, ai tempi di Platone, non poteva che guardarla con orrore, poiché in essa il logos, volgendosi all’irrazionale, contraddiceva se stesso. L’irrazionalità della poesia si concretava nella forma più grave: la ribellione della parola, la perversione del logos che lavorava per portare alla luce ciò che in quanto non essere, doveva essere taciuto. Una falsa verità, insomma. Verità, in quanto si mostra nel suo apparire, come verità della parola. Falsa perché scopre quel che, non raggiungendo il supremo rango dell’essere, non ha motivo di manifestarsi». Cfr. Maria Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna, 1990, pag. 59.

2 Questa unità tra le cose e il mondo va ricostruita attraverso la lingua che non è quella dell’agire comunicativo della quotidianità, ma una lingua semplice e umile a ci si ritorna per mezzo della poesia. Ecco cosa scrive Bonnefoy a proposito della scoperta della lingua latina durante la sua giovinezza: «Di colpo la pagina penetrò in me, e quando il giorno dopo, per primo, o unico, fui interrogato, esposi quella rivelazione in una sorta di estasi, peraltro poi rientrata … Che cosa avevo imparato? Che per dire où c’era ubi. Ma che questa parola si riferisce soltanto al luogo in cui si è, mentre per quello da cui si viene c’è unde, e quo per quello in cui si va, e qua per quello da cui si passa. Dunque, quattro dimensioni per frammentare un’unità – un’opacità – che era dunque puramente fittizia. L’“où” che il francese non faceva che aggirare, usandolo come al di fuori, scopriva nella sua profondità una spazialità imprevista». Cfr. Yves Bonnefoy, L’Entroterra, a cura di Gabriella Caramore, Donzelli, Roma, 2004, p. 90. (Arriére-pays, Gallimard, Paris, 1972).


3  Davide Bracaglia, L’esilio e il sacrificio di Yves Bonnefoy, in «Poesia», n. 45

4 Non credo che la poesia abbia strutture “tradizionali” o “moderne”; in quanto ricerca sul linguaggio la poesia è sempre trasgressiva, il fatto stesso di essere senza metrica, poi, è già una rottura; io mi riconosco, rispetto alla poesia del passato, nella continuità musicale, nella tensione verso l’armonia, ma solo in questo». Intervista a Yves Bonnefoy, in Luigi Amendola, Segreti d’autore. I poeti svelano la loro scrittura, Minimum fax, Roma, 1994, pag. 18.

5.Nel volume su Rimbaud egli scrive: «Quando Mallarmé evoca l’absente de tout bouquet è per opporre l’Idea, l’archetipo intelligibile, alle nostre finitudini e alla morte. Quando Baudelaire nomina il Cigno, è per rianimare una vera presenza là dove non vi sono più altro che ombre. Allo stesso modo Rimbaud si è armato di queste parole salvatrici. Ma non è più l’Idea o la presenza degli esseri a tormentarlo, ma, al di là delle realtà sensibili, l’in-sé, sostanziale, luminoso. In un cammino di questo essere tanto vicino e al tempo stesso così lontano. Nominare, allora, è volgersi verso questo «ignoto». Nominare sembra permettere una partecipazione immediata e più che cieca alla fiamma violenta di ciò che è». Cfr. Yves Bonnefoy, Rimbaud. Speranza e lucidità, edizione italiana a cura di Fabio Scotto Donzelli, Roma, 2010, pagg. 80-81.

6 Cfr. Jean-Pierre Richard, Bonnefoy entre l’ombre et la nuit, in «Critique», n.17, 1961, pagg. 387- 411.

7Enrico Guaraldo, Yves Bonnefoy e le possibilità della morte, in Letteratura francese del Novecento, Rizzoli, Milano, 1992, pag. 629.

8 Yves Bonnefoy, Nell’insidia della soglia, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 57-59. (Dans le leurre du seuil, Mercure de France, Paris, 1975).

9 Ved. nota 2.

10 Gabriella Sica, Con il poeta errante Bonnefoy verso la terra promessa, su «Tuttolibri» del 28 marzo 2004.

11 È soprattutto nella prima raccolta che questo avviene. In Du mouvement et de l'immobilité de Douve, infatti, vi è un «incontro con la finitezza, con ciò che nella vita dell'uomo più dolorosamente ferisce e più profondamente umilia. Douve è il recupero dell'elemento mortale della vicenda umana, è l'epopea del corpo che si trasforma e si corrompe. Il paesaggio che si compone nelle poesie di Douve è fatto di oggetti destinati alla consunzione: alberi, terra, fogliame, e «l'immense matière indicibile». Ma ci sono anche elementi immutabili -- la pietra, la notte, il sangue antico -- e le mitiche figurazioni che hanno origine nei primordi dell'immaginazione umana -- la Menade, la Fenice, la salamandra. Immagini insieme mutevoli e eterne: in Douve le cose sostano, incerte, tra stasi e propensione al moto». Cfr. Lorena Zaccagnino, Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo, pubblicato in rivista filosofica «Dialeghestai» all’indirizzo <http://mondodomani.org/dialegesthai/lza01.htm>.

12 Già in Anti-Platon (pubblicato per la prima volta nel 1947 su “La Révolution la Nuit” e rivisto nel 1962), pur utilizzando ancora i procedimenti onirico-allucinatori della ricerca linguistica surrealista, Bonnefoy mette le radici di quella sua personale esplorazione aggressiva e violenta, intesa a lacerare lo scrigno inaccessibile in cui si deposita il vero volto del mondo. «In Anti-Platon compare il nucleo tematico – poche note discordi, ossessive, enigmatiche, ma già cariche di notturna violenza passionale - da cui si sviluppa Du mouvement et de l’immobilité de Douve. In quest’opera, destinata a rimanere tra i migliori libri di poesia del secolo, il surrealismo d’origine è portato alle sue ultime conseguenze e quindi superato: un furore amoroso e conoscitivo trasforma infatti il gioco crudele, casuale e cerebrale di tanta poesia e pittura francese d’avanguardia nella larga sinfonia funebre di una discesa agli inferi sentita come passaggio obbligato, l’ultimo ancora da compiere, nell’esplorazione della “notte dell’essere”, per l’acquisto di una sapienza e salvezza di cui solo la poesia può farsi portatrice». Maria Clelia Cardona, Yves Bonnefoy. L’acqua che fugge, in «Poesia», n. 118, giugno 1998, anno XI, pag. 3.

13Piero Bigongiari, “La poesia imperfetta di Bonnefoy tra Hier régnant désert e Pierre écrite”, in La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972, pagg. 296-297.

14 In Italia è stato pubblicato nel 2004 un volumetto monografico che si concentra soprattutto sul periodo surrealista dello scultore svizzero. Cfr. Yves Bonnefoy, Alberto Giacometti, Abscondita, Milano, 2004.

15 Intervento di Yves Bonnefoy al convegno La presenza della poesia contemporanea, disponibile sul web all’indirizzo: <http://www.centroculturaledimilano.it/w content/uploads/2013/05/990524BonnefoyMussapiLoiRiccardiRondoniTesto.pdf>

16 Yves Bonnefoy, L’improbabile, Palermo, Sellerio, p. 11

17  Ivi, p. 21

18 «[…] nell’istante di presenza, in questo istante di emozione, l’essere o la cosa nominata si sono liberati della loro immagine. E l’intera realtà appare sotto un’altra luce, perché allora constatiamo che in ogni minima cosa c’è un numero infinito di aspetti, ma soprattutto che vi sono insieme, aggrovigliati, e che in primo luogo attirano lo sguardo e non il pensiero. La cosa è qui, sotto i nostri occhi, nel suo ‘qui’ e nel suo ‘ora’, nulla può prenderne il posto, essa ha carattere di un assoluto – ed è un assoluto che ricade su di noi, che in questo ostante la guardiamo». Yves Bonnefoy, L’opera poetica, a cura di Fabio Scotto, Milano, “I Meridiani” , Mondadori, 2010, p.1348


19 Stefano Agosti, Introduzione a Yves Bonnefoy, Movimento e immobilità di Douve, trad. di Diana Grange Fiori, Torino, Einaudi, 1969, pp. 9-10. (Du Mouvement et de l’Immobilité de Douve, Mercure de France, Paris, 1953).

20 In realtà Bonnefoy, come ha più volte notificato, non si è voluto mai concretamente identificare con nessuna forma di filosofia, con nessun sistema e organizzazione di pensiero, proprio paradigma antitetico, nella formulazione di una visione e di una comprensione del mondo, alla condotta metodologica delle diverse filosofie che utilizzano il concetto come strumento speculativo. La sua, a livello sistemico-teoretico, si orienta ad essere più che altro una non-filosofia, pur mantenendo un approccio fenomenologico alla realtà.

21 Stefano Agosti , Introduzione, cit., pag. 10. A proposito della prima raccolta il critico evidenzia che «Douve acquista, attraverso tutti gli stadi della devastazione, l’infallibile coscienza dell’esistere [e che] non è il doppio di una figura reale e non è dotata di biografia ma possiamo considerare questa figura come il “luogo” eletto dal poeta per condurre o verificare quella che per Bonnefoy si dà come l’esperienza fondamentale e autentica nei riguardi della realtà: ossia l’esperienza della morte» (pp. 7-9).

22 «Aderire significa creare un’unità o una continuità all’interno della quale non vi è assenza, cioè vuoto, bensì presenza assicurata da legami concreti, per quanto fragili e precari, che si esplicano in termini di rapporti interpersonali di reciproca dipendenza.

Non vi è alcun dubbio che in tale movimento di apertura, verso il mondo e ancor più verso il prossimo, vi sia alla base uno slancio di riconoscenza e d’amore che svela la sola possibilità di esistere. Nella sua piena realizzazione o incarnazione la presenza implica, per sua natura… Si è ‘in presenza’, dunque, quando si è consapevoli di vivere in un luogo e in un momento determinati, circondati da persone mortali: da ciò deriva l’interesse per la realtà concreta, lì inevitabile inclinazione per la fisicità del mondo» (Isabella Molinaro, Corpi femminili nell’opera poetica di Yves Bonnefoy, pp.10-11)

23 Secondo lo studioso e storico delle religioni franco-romeno, il tempo profano è quello che noi viviamo nel susseguirsi e concatenarsi degli attimi e nell’espletamento delle relazioni di causalità; il tempo sacro, al contrario, rappresenta una breccia intervallare che porterebbe alle soglie di una diversa dimensione. Il primo, quindi, si “apre” sul secondo producendo la manifestazione «dell’ assoluto, vale a dire il soprannaturale, il sovraumano, il sovrastorico». Cfr. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pp. 352 e segg.

24 Stefano Agosti, Introduzione, cit., p. 8.

25 Yves Bonnefoy, Movimento e immobilità di Douve, cit., p. 27.

26 Ivi, p. 83.

27 Ivi, p. 134.

28 Il testo si riferisce alla seconda raccolta poetica Hier régnant désert edita da Mercure de France nel 1958. Cfr. Introduzione dell’autore a Yves Bonnefoy, Ieri regnante deserto seguito da Pietra scritta, Guanda, Parma, 2005, p. 12.

29 Così nei versi di Rilke, poeta molto vicino a Bonnefoy per una serie di ragioni, un’Euridice investita dalla morte rinasce in un bozzolo di perfezione dove ella colma la sua pienezza, dimenticandosi addirittura del suo amante in un vuoto di lontananza: «[…] e il suo essere morta/ la riempiva come una pienezza./ Come d’oscurità e di dolcezza un frutto/ era colma della sua grande morte./ Così nuova che tutto le era incomprensibile./ Ella era in una verginità nuova/ ed intangibile. Il suo sesso chiuso/ come un giovane fiore sulla sera,/ e le sue mani erano così immemori/ di nozze che anche il dio che la guidava/ col suo tocco infinitamente lieve,/ come un contatto troppo familiare l’offendeva». Tratto da “Orfeo. Euridice. Hermes” in Rainer Maria Rilke, Nuove poesie, a cura di G. Cacciapaglia, Einaudi, Torino, 1992, p. 171.

30 Yves Bonneoy, L’improbabile, cit., p.14. Si può, in aggiunta, considerare quest’altra importante riflessione: «[…] la parola, per quanto essa è – come è quasi sempre – un’articolazione di concetti, un affidamento della gestione della realtà che ci circonda – e persino della coscienza che ha di sé – allo strumento concettuale, si presenta necessariamente e fondamentalmente come un “dopo”. Perché ci sia concetto, infatti, si sarà dovuto prelevare da un oggetto un aspetto, ben delimitabile, del quale tale concetto diverrà il nome proprio. Successivamente, messa in relazione con altre della stessa natura, la nuova nozione parteciperà alla costruzione di modelli che il pensiero concettuale opera, districando i fenomeni, facendo emergere leggi, strutture, e offrendo così qualche presa sulla realtà naturale o sociale». Cfr. Yves Bonnefoy, Stregati dal potere di Mnemosine, in «Il Sole 24 ore» del 1 maggio 2005.

31 « […] Che io dica “il fuoco” […], e poeticamente, quel che la parola rievoca per me non è soltanto il fuoco, nella sua natura di fuoco – quel che, del fuoco, può proporre il suo concetto: è la presenza del fuoco nell’orizzonte della mia vita, e non certo come un oggetto analizzabile e utilizzabile (dunque finito, sostituibile), bensì come un dio attivo e ricco di poteri». Yves Bonnefoy, La poesia francese e il principio di identità in Un sogno fatto a Mantova, Palermo, Sellerio, 1979, p. 134.

32  Sotto questo punto di vista per alcuni aspetti la riflessione del poeta francese è vicina a quella del filosofo e religioso russo Pavel Florenskij quando questi parla del valore magico e dell’energia contenuti dentro la parola: «La parola è energia umana: sia quella del genere umano, sia quella della singola persona, è energia dell’umanità che si rivela attraverso la singola persona. Ma, in senso proprio, non possiamo considerare questa energia come oggetto della parola, o come suo contenuto: nella sua attività conoscitiva la parola guida lo spirito al di là dei confini della soggettività e lo mette in contatto con il mondo che si trova oltre i nostri stati psichici». Pavel Florenskij, Il valore magico della parola, Milano, Medusa, 2001, p. 21

33 Cfr. Jean Starobinski, Yves Bonnefoy, la poésie entre deux mondes, in «Critique», 385-386, 1979, pagg. 508-509.

34 «Nella presa del suo oggetto (o nell’allusione di una presa), la poesia è del tutto simile alla “simplex apprehensio”, all’afferrare puro che non può dire né sì né no alla realtà che si offre, ma solo accoglierla. Ed è in questa veste antipredicativa che essa può essere vista come messa in opera dalla verità. Il suo “errore” essenziale consiste nel dire ineluttabilmente di sì al tutto immediato della cosa, come un bisogno insopprimibile di arrivare all’origine, nel che essa non riesce a sostare presso la cosa, circondandola intorno, ma nello slancio dell’afferramento, senza avvedersene, se ne proietta la di là, restando lei l’unica “cosa”». Francesco Calvo, Il solco della parola, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, pag. 216.

35 Intervista rilasciata a Luigia Sorrentino, cit.